domenica 9 ottobre 2011

Mario Mariotti 'organico' e 'disorganico'

Si è inaugurata ieri, 8 ottobre, in occasione della Giornata dell'arte contemporanea, al Museo Pecci di Prato, la grande retrospettiva delle opere di Mario Mariotti, che fa seguito alla donazione al museo dell'archivio dell'artista.

L'esposizione, ricchissima, è una vera grande ricognizione 'totale' sul lavoro dell'artista, del grafico, dell'illustratore, dell'uomo di idee, e restituisce un po' del Mariotti intellettuale e operatore culturale, 'organico' e 'disorganico' al tempo stesso, che la morte ci aveva prematuramente sottratto. Una girandola di idee, di arguzia, di intelligenza; un meraviglioso modo di non prendersi mai troppo pesantemente sul serio.

Mandiamo in rete una serie di immagini, prese al volo, della mostra e una riflessione su uno degli aspetti più tipicamente 'mariottiani' della sua opera: la performance urbana.







Mariotti sulla città
Andrea Rauch

Madonna del puzzo, 1990
Tutti hanno progetti nel cassetto. Quali sono i tuoi?
Io non ho progetti nel cassetto, ma nel cassonetto.
Mario getta qualcosa nel cassonetto;
la camera panoramica sulla dea del puzzo e sfuoca.

L’esergo è ripreso dallo story board di un progetto di intervista a Mario Mariotti e la dice lunga sulla sua idea di arte, di creatività, di città. La dice lunga sul suo modo di guardare le cose, di intervenire nella realtà ambientale con sottili, a volte ‘violenti’, slittamenti semantici che diventavano opera d’arte o intervento urbano.
Il cassonetto in fine Via Toscanella, alla confluenza con Borgo San Jacopo, non c’è più, o meglio a volte c’è, poi viene tolto, poi riappare. Molte metafore in quel contenitore di rifiuti che arriva e scompare come un miraggio. Ci si legge una città che è incerta del futuro, che non sa gettare l’occhio lontano, incapace quasi di decidere in maniera inambigua del proprio destino. La Madonna del Puzzo, la statuetta mezzobusto votiva di Mario, è comunque sempre là, in quella nicchia dove l’artista l’aveva collocata all’inizio degli anni ’90, ed è anch’essa una metafora, ma di segno opposto. La metafora di un ambiente che sceglie e rifiuta, che occupa una porzione di spazio precisamente inserita in un continuum storico accertato e accertabile e che, di quel continuum vuole ancora essere parte. Senza quel cassonetto o se volete, con un gioco di parole di cui Mario Mariotti era maestro indiscusso, senza “puzza sotto il naso”, rifiutando quindi un’aristocrazia altezzosa e arrogante (ma molto spesso poco più che bottegaia!) e riappropriandosi di quell’aristocrazia intellettuale di popolo e di idee che, nei secoli, era stata la vera griffe della città.

Già. La ‘vera griffe’ della città! Ma a cosa si è ridotta la Firenze che anche Mario Mariotti sognava e progettava?
“…le persone che hanno bisogno di sentirsi soggetto – rispondeva in tema Mario ad una domanda di M. L. Grossi – si trovano benissimo a Firenze, come me. Quelle che hanno bisogno di “funzionare” soffrono molto di emarginazione: Firenze non è una città funzionale alla civiltà che oggi impera, perciò rischia di essere occupata da modi di fare e di pensare estranei, riducendosi a un contenitore di oggetti da museo. La civiltà dominante non può permettersi il lusso di una città intellettualmente aristocratica inutile ai fini produttivi e perciò poco interessante per alcuni ceti politici e bottegai fiorentini. Eppure, ripeto, Firenze sarebbe utile non come città esemplare ma come esempio, come modello di diversità, un’idea di soggetto sempre pronta in un mondo di consumi e di vincitori.

Fire nze, 1985

È chiaro quindi come la riflessione artistica e ‘progettuale’ di Mario sia sempre rimasta in bilico tra pensiero storico e proiezione temporale, alla ricerca di un equilibrio che non confinasse l’arte in una specie di cantuccio ideale (un pressoché inutile ‘paese dei balocchi’) ma che la ponesse al centro di una comunità capace di ripensare se stessa in maniera creativa e autonoma.

Il paese dell’arte, problema topologico, è abitato dalla fervida popolazione degli artisti i quali si preoccupano di disegnare incessantemente i confini immaginari che lo distinguono dalle popolazioni delle regioni adiacenti, appartenenti ad altri sistemi, a volte impegnate a difendere ed estendere i confini dei loro territori che tendono a sovrapporsi gli uni con gli altri nella intricata mappa delle separazioni. Io, senza colpa o merito apparente, mi trovo qualche volta vicino ai luoghi dove i vari confini si intersecano fra di loro, in un puntino mobilissimo, per il quale, alterni, transitano distratti e affaccendati i massimi e i minimi sistemi che mi governano e nei quali ogni volta non posso che riconoscermi.

No, 1974
La riflessione succitata risale al 1980 e si colloca all’aprirsi della grande stagione delle performance urbane di Mario, appena dopo il No per il referendum sul divorzio (1974) proiettato sulla cupola di Santa Maria del Fiore (un segno quasi di dileggio provocatorio per chi, in nome di un proprio pensiero integrale, cerca di conculcare le altrui libertà, ma anche, in misura forse maggiore, un segno di riappropriazione totale di uno spazio pubblico, supporto vitale per la comunicazione delle idee. Spazio a disposizione e patrimonio della comunità tutta e non di parte di essa). C’è quindi già qui quell’idea ironica e autoironica dello spazio, ma anche il ripensamento storico, che da Piazza della Palla in poi caratterizzerà tutto l’operare di Mario e che troverà in Oltrarno, a cavallo tra le pescaie dell’Arno e Piazza Santo Spirito, il suo ideale habitat irrinunciabile e imprenscindibile.

In fondo tutte le grandi performance di Mario Mariotti nascono da un’idea di spazio ma anche da un’idea comunitaria forte e avvolgente. Oltrarno non è soltanto vie, palazzi, chiese, pietre e mattoni. Nel Mariotti-pensiero Oltrarno è ‘luogo dello spirito’ dove, con pregi e difetti, vive e opera una comunità che ha i suoi studenti e i suoi artisti, i suoi bottegai e i suoi servizi, le sue grandezze e le sue miserie. Una comunità che si apre con generosità al mondo (quanti artisti di ogni paese hanno partecipato a quegli eventi?) e che proprio per il suo guardarsi le radici può riuscire a trovare la rotta per il nuovo equilibrio che postulavamo qualche rigo fa.

Piazza della Palla, 1980

Piazza della Palla (1980) si apriva con l’ovvio doppio senso, molto fiorentino, delle ‘Palle dei Medici’, ma anche con il contrasto postumo con le grida seicentesche che imponevano di non giocare, in piazza, con ‘palle e pallottole’, e poi, in un delirio estivo di colori, cocomero e gelati, si sostanziava nelle proiezioni sulla facciata di Santo Spirito, capolavoro incompiuto di Filippo Brunelleschi.

Gli ultimi Medici sparirono così alla svelta che non fecero in tempo a finire le facciate delle chiese. E i fiorentini, ancora pieni di superbia quanto di miseria, si buttarono con entusiasmo a progettar facciate (esercizio decoroso ed economico a un tempo); non appena Firenze fu eletta a capitale dell’Italia Unita, tirarono fuori dai loro concorsi di facciata i progetti vincenti da far pagare alla Nazione e, svelti svelti, ne riuscirono a tirar su due: Santa Maria del Fiore e Santa Croce. Fortunatamente la capitale passò a Roma e le altre facciate furono risparmiate e il mio progetto di Santo Spirito fu salvo…”

Fire nze, 1985

Fire nze, 1985

Gli artisti della facciata di Santo Spirito, tanti, tutti contenuti dalla silhouette nera che Mario aveva stampato e distribuito (come uno di quei vecchi album che avevano del disegno solo il contorno perché potessimo riempirlo di colore), si sono, in parte, ritrovati poi nei cenci alle finestre di Fire nze (1985), grande parabola del fuoco e dell’acqua (“Chi sputa nell’acqua e piscia nel foco, bene da Dio ne avrà sempre poco…”), tante performance in una, guardate dalle finestre della piazza da quei cenci che diventavano arazzo e affresco collettivo.

Polittico di San Giovanni, 1991
Oppure ritroveremo gli artisti amici di Mario nel grande Polittico di San Giovanni (1991), opera omnia sistemata a pelo d’acqua dai Canottieri d’Arno in onore del Santo Patrono e che, nata da un’idea spaziale ordinatamente razionale, finirà per disporsi nel fiume in maniera disordinata e anarchica.

Mariotti, con l’usuale ironia, chiederà scusa: “Dichiaro al cielo, al mondo e al fiume il mio fallimento. Il polittico non si è concluso. Ma io, a onor del vero, ce l’ho messa tutta. E con me tutti quelli che lo volevano. Ma, probabilmente a ragione, si è imposta la forma dello sganasciamento reale  su quella ideale di struttura. Il mio peccato, veniale, è immaginare quello che non vuole succedere…




Polittico di San Giovanni, 1991

Comunque la grande lezione che Mario Mariotti ci lascia con il polittico è intatta: “Gli uomini, con le donne, sono polittici ambulanti che fanno scorrere la loro vita nel polittico delle città. E anche l’arte è un polittico, che dà forma e qualità al polittico urbano. La sua composizione, per essere armonica e viva, ha bisogno di tutto e di tutti: del grande e del piccolo, del vecchio e del nuovo. Ha bisogno di essere conservata ma anzitutto, come ogni polittico, immaginata.

Parole che sono quasi un lascito e che riassumono l’idea di città di Mario Mariotti, ma che ci piace pensare possano anche essere profezia. Il tentativo generoso dell’arte per dare sostanza al passato e più ancora per dare speranza al futuro. Per non lasciare la città “… sempre in bilico tra l’essere a misura d’uomo e il diventare a misura di nano.

Testo pubblicato in fff, firenze fast forward, numero 2, gennaio 2010.

1 commento:

  1. ecco che mi accorgo di correre troppo quando scopro di essermi perso storie come queste, sulle performances di Mariotti e il suo pensiero... fortunatamente poi una mattina si inizia da Topor e si finisce (ma si finirà mai? spero di no!) a Mariotti. Ancora grazie

    RispondiElimina