lunedì 6 febbraio 2012

Un Canto di Natale

Tempo di bicentenari questo 2012. Avevamo appena fatto in tempo a ricordare che proprio in quel 1812 era stata pubblicata la raccolta delle Fiabe dei Fratelli Grimm che subito la cronaca ci ha rammentato la nascita di Charles Dickens. Alias del Manifesto ha dedicato domenica 5 febbraio alcune pagine allo scrittore inglese. Tra gli altri contributi (di Francesca Lazzarato, Mario Lavagetto, Clotilde Bertoni, Stefano Jossa) anche una riflessione di Andrea Rauch sull'illustrazione del Canto di Natale. 
La ripubblichiamo di seguito.

Prima edizione del Canto di Natale; illustrazione di John Leech, 1843

La fredda Londra della miseria e della diseguaglianza
Andrea Rauch

A Christmas Carol, scritto da Charles Dickens nel 1843, in poco più di due mesi, per essere pubblicato in tempo per le feste natalizie (una strenna diremmo oggi), fa parte di una serie di cinque racconti dedicati al Natale che l’autore pubblicò fino al 1848 e che, sotto l’apparenza di favola edificante, descrivono uno dei temi più cari all’autore inglese, quasi un nervo scoperto: la vita dei ceti sociali economicamente svantaggiati (i ‘poveri’ si sarebbe detto in tempi di no politically correct) e la denuncia vibrante delle situazioni di sopruso e pregiudizio. In questo Dickens è coerente con se stesso e aggiunge una tessera a quel gigantesco mosaico letterario che sarà il suo carattere distintivo e necessario. Il racconto della Londra tetra e austera, la Londra fredda della miseria, della disuguaglianza, dell’ingiustizia, è centrale nel Canto di Natale e l’arido Ebenezer Scrooge, con la sua leggendaria e antonomastica grettezza morale, ne è l’alfiere ineguagliabile e ineguagliato.

Ma naturalmente tutto ciò è storia e se noi oggi leggiamo ancora il Canto di Natale, certo non lo facciamo per la sua vena popolare e populista. Il Canto di Natale, al di là del suo innegabile fascino letterario, è uno dei libri che più ha avuto la ventura di stimolare l’immaginario dei lettori e di prestarsi, nel tempo, ad essere indagato dalle matite e dai pennelli di tanta grande illustrazione. A cominciare da quel John Leech, disegnatore del Punch, che ebbe per primo l’onore e l’onere di dar volto all’avaro Scrooge e ai tre spiriti del Natale. Per poi passare, in rapida e certo molto parziale carrellata, a Arthur Rackham, Libico Maraja, Lisbeth Zwerger, Roberto Innocenti; senza dimenticare Carl Barks che, ispirandosi all’avaro dickensiano, diede vita nientemeno che al suo Paperon de’ Paperoni (Uncle Scrooge, appunto, nell’originale disneyano).

Arthur Rackham, 1915

Lo spazio di quest’articolo non ci consente di esaminare diffusamente gli illustratori che si sono occupati del Canto. Ci vorremmo però almeno soffermare su due degli artisti, forse significativamente situati in anni molto lontani del percorso: Arthur Rackham, che illustra il libro nel 1915 e Roberto Innocenti che vi si dedica nel 1990.
Due estremi, non solo epocali, inseriti, il primo in quella sorta di new age liberty che voleva essere anche la risposta a un troppo rigido formalismo vittoriano, e il secondo in una sacca di iperrealismo che lascia scorgere da una parte la ricostruzione puntuale degli ambienti e dei personaggi e dall’altra la loro sostanza irrealmente stralunata.

Arthur Rackham, 1915

Quando Rackham si avvicina al Canto di Natale ha già illustrato Alice in Wonderland e Peter Pan in Kensington Gardens e ha, quindi, già costruito il suo universo di riferimento ideale, popolato di elementi tra loro eterocliti e discordanti. Nella città e i giardini disegnati da Rackham si muove sempre con disinvoltura il 'piccolo popolo', le fate volano libere, la regina Mab tiene corte e il Cappellaio Matto prende il tè con la Lepre Marzolina.

Arthur Rackham, 1915

Arthur Rackham, 1915

Certo, la Londra di Dickens non è un Paese delle Meraviglie, e nemmeno quella che dipinge Rackham vuole esserlo, ma l’atmosfera che l’artista fa intravedere nei suoi disegni nervosi ed eleganti, anche quando affronta gli aspetti macabri e angosciosi del racconto, appare sempre irreale e leggera. Una fiaba appunto.

Arthur Rackham, 1915

Roberto Innocenti invece si immerge nella Londra di Dickens e ne succhia l’anima, quasi con un’istintiva lettura ‘politica’ del testo. Le vie fredde e cupe appaiono in tutto  come la proiezione di uno stato d’animo scostante, il ritratto di una dolorosa miseria sociale e personale. I mattoni dei muri della città sono neri e opachi di nebbia e carbone. Nelle strade costipate, su per le scale buie, nei vicoli abitati da un sottoproletariato cencioso, degradato, inquietante, i fantasmi del Natale passato, presente e futuro mostrano a Ebenezer Scrooge la desolazione della sua vita e gli indicano la via per un possibile, diverso, esito.

Roberto Innocenti, 1990

Nemmeno questo esile segno di speranza basta però ad allontanare l’impressione di tristezza inquieta che la neve pasticciata dai passi o l’angustia dei vicoli sporchi trasmettono come una febbre. La stessa febbre forse, che aveva spinto Charles Dickens a descrivere quel mondo e a dargli voce.

Roberto Innocenti, 1990

Roberto Innocenti, 1990

Roberto Innocenti, 1990

Per chi vuole saperne di più sull'iconografia del Canto di Natale si consiglia l'edizione pubblicata da Interlinea nel 2009 che contiene un breve saggio di Walter Fochesato sugli illustratori delle edizioni italiane del libro.

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